Ferrara, Alessandro, (a cura di), Religione e politica nella società post-secolare.
Roma, Meltemi, 2009, pp. 287, € 22,00, ISBN 9788883536694.
Recensione di Alessandro Lattarulo – 26/05/2009
Filosofia politica, Filosofia della religione
Indice - L'autore
Volume di rara densità e attualità, Religione e politica nella società post-secolare raccoglie e rielabora i materiali di un convegno del settembre 2007, mettendo a confronto studiosi affermati e giovani ricercatori.
Una possibile chiave di lettura è offerta dal curatore, Alessandro Ferrara, nell’Introduzione: il venir meno, dopo il 1989, della Guerra Fredda come asse principale della polarizzazione politica sul piano globale ha proiettato la fede religiosa e l’affiliazione alle comunità religiose come principale fattore di aggregazione identitaria e di identificazione popolare (p. 7). Si tratta di una tesi ampiamente circolante in ambito scientifico e non priva di capacità penetrativa dell’esistente. In fondo, la definizione del proprio Sé a partire da un’appartenenza che svolga una funzione di rassicurazione dinanzi a un mondo la cui complessità sollecita patrimoni di conoscenza non sempre ben consolidati e diffusi, sembra riflettere uno schema di autocomprensione come differenziazione polemica dall’Altro che immagina di trascinare certe eredità del pensiero Moderno senza lasciarsi tentare dalla furia omologante del “pensiero unico” sulla fine della storia. E senza aderire alle teorie di stampo “progressista” che nell’identità intravedono esclusivamente una “scoria” del secolo breve, il meccanismo di accensione dei focolai bellici che hanno condotto all’orrore delle due guerre mondiali e dei totalitarismi.
Il manifesto dell’antropologo Remotti contro l’identità o la modernizzazione riflessiva di Beck, con il suo portato poliidentitario, cosmopoliticamemte disancorato dalla territorialità dei luoghi, tutt’al più disposto a riconoscere la rizomaticità di relazioni umane collocate in un “dove” mobile, senza confini, in una partizione degli spazi che destruttura la teologia politica schmittiana per aderire all’ideale di un assetto “imperiale” del pianeta, sono revocati in dubbio. Viene messa indirettamente in discussione la possibile valenza euristica, giacché, come argomenta Michele Nicoletti in apertura del proprio contributo, la costruzione del politico come spazio secolare, cioè appartenente al tempo che passa, in cui la convivenza pacifica e ordinata della società è affidata al giudizio umano e alla sua azione, che si traduce in istituzioni e in costumi, sorge anche da un conflitto tra interpretazioni del divino: è, insomma, costruzione teologica, di un logos che pensa il divino o, se si preferisce, di un divino che si manifesta come logos (p. 65). Riformare il paradigma liberale su religione e politica sembra dunque impresa votata al fallimento. La secolarizzazione ideologicamente intesa cede sotto la pressione di un’inestinguibile bisogno di fede, del trascendente, del sacro, di un rapporto fideistico con verità pre-date, che non sia sottoposto al severo e faticoso vaglio della razionalità.
La costruzione della secolarità appare dunque barcollante negli elementi che la caratterizzano: il riconoscimento della libertà religiosa e il pluralismo istituzionale. E manifesta una qualche difficoltà a resistere ad attacchi concentrici, perché le migrazioni di massa corrodono il sostrato unitario dell’Occidente, trasformando la multiculturalità da mero esperimento mentale a concreta esigenza quotidiana, senza che si riesca a trovare ancora la quadratura del cerchio. La sfida della convivenza ragionevole, come serbatoio di opportunità per una migliore e civile auto-comprensione, non come disagio inevitabile, sostanzia, secondo Alberto Pirni, una strategia di superamento di un multiculturalismo ancorato all’immaturità di una fase in cui riproduce “ghetti continui” (p. 156), ma è purtroppo vittima di un’offensiva che non esita a mettere in mora il ruolo e il significato più profondo dello Stato, sottoposto dalla globalizzazione a una doppia trazione, a un’erosione della propria sovranità, verso l’alto e verso il basso.
Il punto è dirimente, perché le riflessioni sulla laicità, il secolarismo, la religione e il rapporto intessuto (o ripudiato) con i diritti transitano, de facto, attraverso l’esigibilità di questi nella territorialità entro cui è possibile godere dello status di cittadino. Al tempo stesso, la riattivazione di una logica identitaria, escludente, connette ogni riflessione in materia di laicità e religione a una comunità che non trova fondamento in un pactum unionis di natura costituzionale (che potrebbe implicare persino andare oltre lo Stato attuale), ma in un legame di stampo etnico, nazionale, che riporta la finzione della volontà popolare entro gli steccati di un olismo comunitaristico dato per sempre, invece di depotenziarne il tratto omologante, soffocante della libera espressone della soggettività, per legarlo alla fictio iuris di un approdo costituzionale che lega l’esercizio della libertà a una trama valoriale che rompe la gretta dipendenza dalla tradizione, per affidare alla volontà personale, mediata dalla legge, la loro vivificazione ma anche l’eventuale rivisitazione. Alla contingenza storica della realtà statuale, all’articolazione dei poteri al suo interno secondo una logica funzionale, solo accessoriamente “simbolica”, fa da controcanto una radicalizzazione dello scontro fra concezioni comprensive incompatibili. Il rimedio liberaldemocratico all’impasse è da Emanuela Ceva affidato all’elaborazione di una prospettiva politica di impronta rawlsiana, che soddisfi criteri di equa distribuzione di risorse in caso di loro scarsità e che garantisca giustizia distributiva tra agenti portatori di valori differenti, in una pluralità etico-religiosa abbondante, di cui sterilizzare i possibili motivi di conflitto (p. 177). Poiché soltanto l’Europa sembra parzialmente esente dalla reviviscenza integralista delle forze religiose, una soluzione minimalista, che affidi alla tolleranza e all’habermasiano “reciproco apprendimento” tra fede e religione e tra differenti confessioni il compito di suggerire comunicativamente il confronto, diventa l’unica soluzione percorribile per evitare polarizzazioni distruttive. La giustizia viene trasformata in meta-norma incardinata in una teoria elaborata in termini procedurali, che problematizza il limitato potere predittivo di ogni teoria di fronte alla varietà di situazioni applicative, ricercando in un’ottica sostantiva l’architrave di una coincidenza profonda tra prospettiva terrena e prospettiva ultra-mondana di un criterio distributivo che garantisca una coesione sociale altrimenti in grado di minare lentamente le basi degli ordinamenti democratici.
In questo senso, il capitale contributo di Habermas consente di rimodellare alcune conclusioni sommariamente anticipate secondo le note tesi esposte dal filosofo tedesco nei più recenti lavori.
Come noto, la teoria habermasiana cerca di sfuggire al riduzionismo di una filosofia della storia che legge le modalità dell’organizzazione sociale esclusivamente nei termini di strutture repressive e che interpreta la cultura moderna come radicale processo di razionalizzazione, manipolazione e appropriazione della natura. La ricerca dello studioso tedesco si pone lo scopo di fornire un contributo attivo all’emersione delle dinamiche di integrazione sociale a lungo trascurate, conferendo una centralità mai sperimentata alle pratiche comunicative, che ben testimoniano l’inattingibilità del programma teorico e politico del moderno, non semplice progetto incompiuto, ma costitutivamente in divenire. E proprio per questo da salvaguardare nel suo nucleo speculativo al fine di perfezionarne il potenziale di critica. Già bersaglio delle obiezioni di chi gli rinfaccia di rappresentare teoreticamente lo scivolamento dell’uomo contemporaneo nel tunnel dove la sua preoccupazione principale ruota attorno a ciò che ha e non a ciò che è, quando sarebbe meglio tornare a curare la propria psyche, il filosofo tedesco suggerisce, in prima istanza a se stesso, che forse l’universo liberale deve predisporsi, con atteggiamento al tempo stesso agnostico e ricettivo (p. 41), a consentire un avanzamento progressivo, al proprio interno, di identità lato sensu religiose, capaci di favorirne la rivitalizzazione in un periodo di crisi.
L’ethos civico liberale, nella recente rivisitazione habermasiana, esige sul versante laico nonché su quello religioso un accertamento riflessivo dei confini della fede e della scienza, la cui implicazione più importante consiste nell’essere disposti a prestarsi ascolto e a imparare dagli altri in dibattiti allargati. Invero la perfetta simmetria degli oneri della tolleranza sembra ontologicamente impossibile, per la natura non negoziabile delle credenze che compongono quell’universo di certezze non malleabili proprio perché accettate “per fede”. Così, la convinzione habermasiana che lo Stato liberale debba presupporre da parte dei suoi cittadini atteggiamenti cognitivi che li dispongano a oltrepassare gli steccati ideologici, sembra la proiezione di un artificio comunicativo che il pensatore tedesco immagina possa concernere anche le fedi religiose semplicemente in virtù della presa d’atto che lo Stato costituzionale moderno consente un pacifico pluralismo religioso, messo in atto dall’esercizio imparziale di un’autorità laica garante del rule of law.
Habermas attribuisce al diritto quella funzione strumentale in grado di permettere un modus vivendi nella reciproca frequentazione che meglio si attaglia alla predisposizione laica che ne conforma le personali convinzioni, più che a un pluralismo religioso che non può presupporre atteggiamenti cognitivi collaborativi oltre una determinata soglia, poggiandosi su idee non razionalmente verificabili. Nel discorso filosofico su Ragione e Rivelazione, Habermas non teme di sostenere che la ragione chiamata a riflettere sulle proprie radici più profonde si scopre originata da un’istanza altra, della quale è costretta a riconoscere il fatale potere, se non deve perdere il proprio orientamento razionale nel vicolo cieco di un’autoappropriazione ibrida. Contro la sobrietà etica del pensiero post-metafisico, alla quale si sottrae ogni concetto vincolante di vita buona ed esemplare, Habermas ravvisa nelle Sacre Scritture e nelle tradizioni religiose la capacità di suggerire intuizioni sull’errore, la redenzione e la salvezza.
È il tentativo estremo di assimilare quelle tradizioni “forti” che sarebbe imprudente catalogare come fossili, al fine di collocarle in subordine alla decennale opera di articolazione delle coscienze mediante un’attualizzazione del repubblicanesimo kantiano, ma che espone l’intima coerenza del suo schema argomentativo all’impari confronto con il mai completamente risolto problema condensato nella domanda böckenfördiana: lo Stato liberale e laicizzato si nutre di presupposti normativi che non è di per sé in grado di garantire?
La risposta fornita da Habermas è ambivalente, perché, mentre rimarca che nello Stato costituzionale non esiste alcun soggetto di sovranità che tragga alimento da una sostanza pre-giuridica – così che non rimangono lacune da colmare mediante una sovranità altrettanto sostanziale, per esempio nella forma dell’ethos di un popolo più o meno omogeneo –, contemporaneamente egli interpreta dinamicamente il ruolo di co-legislatori democratici che spetta ai cittadini. A differenza dell’obbedienza a leggi vincolanti la libertà, che può soddisfare pienamente e in maniera autosufficiente il bisogno di legittimazione dello Stato liberale, quando agli attori sociali si richieda di attivare i propri diritti di comunicazione e partecipazione, diviene evidente l’esigenza di un surplus motivazionale non assicurabile per legge e che necessita di una solidarietà non rintracciabile nell’algido tenore di una disposizione normativa. Appropriarsi “patriotticamente” dei princìpi di una costituzione non coincide con lo sposarne intimamente il contenuto astratto, ma con l’assumerla come parte di sé “concretamente”, in base al contesto delle rispettive storie nazionali, e quindi a quel fitto intreccio di orientamenti culturali su cui incidono in profondità, oltre alle nobili tradizioni filosofiche, lasciti religiosi di capitale importanza.
La speranza di Habermas alberga proprio nell’instaurazione di un rapporto tra fede e scienza che si mantenga sulla piattaforma della perdurante autocritica come premessa riflessiva per un confronto che ovatti gli opposti estremismi, riproducendo quel processo storico che ha arricchito e non deflazionato cristianesimo e metafisica greca quando questi si sono compenetrati. Anche oggi filosofia e religione dovrebbero mostrarsi desiderose di apprendere (p. 41), consce della rispettiva fallibilità, aprendosi a una ragione comunicativa cooperativamente volta alla ricerca di una verità inattingibile in senso assoluto, ma sperimentabile intersoggettivamente, mediante una pratica linguistica che sfila la razionalità del singolo dallo svilimento in mero calcolo utilitaristico.
Un altro prezioso contributo nel libro è offerto dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Tra le pieghe del “diktum” di Böckenförde, egli individua la malcelata convinzione che la vita sociale basata sulla libertà nasconda una perniciosa propensione antropofaga che solamente il riconoscimento della Chiesa come depositaria anche della religione civile che dovrebbe sgorgare dal patto costituzionale può arrestare. Ma questa via confessionale, oltre a ricacciare i fedeli nelle pastoie del vincolo all’obbedienza verso la Chiesa sia in quanto credenti sia in quanto cittadini, è latrice di una prognosi senza speranza. Più che di “formazione” (Entstehung) dello Stato moderno secolarizzato, sarebbe giustificato, anzi inevitabile, parlare della sua “dissoluzione” (Auflösung) a prescindere da qualsiasi ragionamento attorno alle sofferenze patite per via della globalizzazione, semplicemente in nome della connessione inevitabile, benché lacerante, tra la libertà, da un lato, e le pretese di benessere individuale, dall’altro.
Un sistema di convivenza basato esclusivamente sui diritti immanenti dei suoi membri, rivolti come pretese individualistiche ed egoistiche nei confronti dello Stato e come armi offensive nei confronti dei con-cittadini, non soltanto non garantisce le sue basi di legittimità, ma, secondo Böckenförde, le distrugge, consumando progressivamente le proprie risorse etiche. Tale erosione corrisponde al venir meno della forza dell’obbligazione politica, verticalmente, e all’affievolirsi del vincolo di solidarietà, orizzontalmente, senza di che lo Stato stesso, nella sua versione democratica, non avrebbe base d’appoggio per espletare la propria funzione di garanzia della vita sociale. Ma uno Stato democratico incardinato esclusivamente su diritti e libertà, privo della capacità di appellarsi a princìpi etici trascendenti e, in loro nome, di pretendere dai suoi cittadini limiti, moderazione e rinunce, è destinato alla catastrofe o, al meglio, a mantenere poco più della nuda facciata di istituzioni democratiche. Denunciare la labilità delle premesse che tengono unito il mondo, creando vincolo (Bindungskräfte) sociale, allude a un legame unificante precedente la libertà che, secondo Zagrebelsky, corrisponde alla prescrizione di una democrazia protetta, a sovranità limitata, in palese contrasto con la ricostruzione storica di Böckenförde stesso, per il quale lo Stato secolarizzato è stato costruito per amore della pace e del bene, come ordre public costituzionalmente pluralista, garante di diritti sempre più estesi anche in conseguenza di un conflitto sociale in grado di condurre a sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo pubblico tutti i cittadini. Lo Stato liberaldemocratico non ha quindi bisogno di assumere una religione come instrumentum regni, ma semmai di problematizzare ulteriormente, senza riserve, l’ambivalenza della doppia fedeltà di attori sociali appartenenti tanto alla cerchia dei cittadini quanto a quella dei credenti, perché la scissione dell’individuo mina le basi dell’autonomia di tutti suoi partecipanti a una democrazia compiuta.
Ogni regime politico si basa sull’esistenza di una “molla” (ressort), di una “passione” che lo fa muovere (p. 46), e se ciò vale anche nell’eventualità di un’incontrollata libertà egoistica che sprigioni una forza distruttiva nei confronti della democrazia, non risulta chiaro perché la medesima degenerazione non debba rintracciarsi all’interno di uno Stato sorretto da un apparato valoriale desunto dalla Verità di una religione. Nella teoria di Böckenförde, l’impotenza dello Stato a tutelare i presupposti che soli sarebbero in grado di garantirne l’esistenza appare a Zagrebelsky preclusa sia de facto, descrittivamente, attraverso il fosco vaticinio sul suo destino in quanto ordinamento imperniato sulla libertà, sia de iure, normativamente. L’appassionata perorazione di Zagrebelsky a favore della democrazia è rivolta contro quelle manifestazioni di pessimismo che intendono concimare la crisi, evocando lo spettro spengleriano di un catastrofico “tramonto dell’Occidente”. Le società contemporanee, secondo Zagrebelsky, non sono affatto prive di valori, perché i modelli sociali europeo e statunitense (con i dovuti distinguo) rendono le democrazie arene pubbliche all’interno delle quali praticare la tolleranza, vivificare la libertà e prodigarsi nella solidarietà, garantiti in ciò dal razionalismo, dai diritti umani, dal costituzionalismo. Tutto questo è identità reale, non solamente vagheggiata dai paladini delle identità materiali, intenzionati a ri-conquistare la perduta egemonia.
Contro le certezze dei crociati delle identità sostanziali, delle verità corazzate dalla fede, sposare l’etica del dubbio non significa abbandonarsi a un radicale scetticismo, bensì omaggiare la verità, nella consapevolezza che la proteiformità delle cose umane non garantisce mai circa la capacità di averle afferrate appieno, a causa del carattere necessariamente fallibile della conoscenza umana. L’etica del dubbio è contro la verità dogmatica, contro quella verità che pretende di fissare le cose una volta per tutte, impedendo la domanda cruciale: “sarà davvero vero?”.
Il terreno della democrazia pullula di res dubiae, cioè delle questioni che possono essere legittimamente decise in un modo o in un altro. Ammettendo le opinioni, il confronto delle idee, la società democratica deve rifuggire l’apatia e il nichilismo etico di chi pensa che tutto sia indifferente, perché la mancanza di concezioni etiche comuni è altrettanto esiziale quanto il monolite dell’unica verità. Semplicemente, in società altamente segmentate e all’interno delle quali i problemi posti da attori individuali e/o collettivi portatori di visioni generali della vita sociale spesso finiscono per sovrapporsi completamente, generando conflitti culturali cruenti, la religione, con le prestazioni amalgamanti di cui è capace, si ripropone come forza unificante di senso cavalcata dalle Chiese.
Siamo allora in un’epoca di incipiente post-secolarismo? La risposta di Zagrebelsky è in merito perentoria e ricalca quel che non risulta incontrastabilmente evidente a Böckenförde e Habermas. L’agire sociale, nelle sue molteplici manifestazioni economiche, tecniche, politiche, affettive, si è reso progressivamente autonomo dalle premesse metafisiche di un tempo, ma tale processo, durato secoli, lungi dall’aver definitivamente sconfitto le concezioni oggettive della realtà umana teologicamente orientate, e lungi dall’averle relegate – allorquando residuino atteggiamenti religiosi nei confronti del mondo – nel campo del privato, irrilevante per la sfera pubblica, ha suscitato un contro-movimento: il post-secolarismo, appunto. Esso è determinato dalla crisi della soggettività raziocinante, che segna il tempo in cui i soggetti della vita secolari si rivolgono di nuovo costitutivamente, e non per mera nostalgia o conforto interiore, alla religione e a quelle prestazioni sociali di tenuta collettiva di cui essa è ritenuta capace.
Il relativismo della democrazia non significa, secondo l’accezione a cui ricorre anche la Chiesa cattolica, che una cosa valga l’altra, che nulla abbia valore, perché questo è nichilismo, scetticismo. Il relativismo della democrazia, e dello Stato in qualità di sua edificazione più articolata, significa ridare smalto alla ricerca dei propri valori, e soprattutto di quelli su cui si basa.
La democrazia va pensata come un processo dinamico di democratizzazione permanente, il cui principio di autonomia, per non trasformarsi in arbitrarietà, estenda indefessamente il proprio orizzonte, a partire da un demos mobile, mai dato definitivamente. E questo processo sempre in fieri transita per la via non confessionale, della laicità senza aggettivi, sottratta, con un soprassalto metastorico, alle grinfie di un’inaccettabile deformazione concettuale (pp. 58 e 62).
Indice
Alessandro Ferrara, Introduzione
Jürgen Habermas, La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?
Gustavo Zagrebelsky, Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici
Michele Nicoletti, “Per amore della libertà”. Sulla dialettica tra religione e politica
Anna Elisabetta Galeotti, Secolarismo e oltre
Cristiano-Maria Bellei, La vittima “liberata”. Dono, produzione e consumo nelle strategie di sopravvivenza
Gabriella Cotta, Filosofia e religione di fronte alla domanda prima
Alberto Pirni, Il ritorno dalla privatizzazione: espressioni dell’identità religiosa
Debora Spini, Al tempo dei Golem. Trasformazioni dello spazio pubblico ed elisione del politico
Emanuela Ceva, Pluralità etico-religiosa e giustizia politica
Chiara Bottici, Religione, politica e immaginazione nella società post-secolare
Salvatore Azzaro, Irreligione e ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce
Vittorio Possenti, Riformare il paradigma “liberale” su religione e politica. Per una ripresa post-secolare del tema teologico-politico
Emanuela Fornari, Senso e traduzione. Religioni, culture, logiche identitarie,
Bibliografia
Gli autori
L'autore
Alessandro Ferrara è Ordinario di Filosofia Politica all'Università di Roma “Tor Vergata” e Presidente della Società Italiana di Filosofia Politica. Autore di numerose pubblicazioni, ha curato, per la casa editrice Meltemi, il volume di Bruce Ackerman La costituzione di emergenza (2005) Il suo ultimo lavoro è The Force of the Example (New York: Columbia University Press, 2008), tr. it. La forza dell'esempio (Milano, Feltrinelli, 2008).